martedì 27 aprile 2010

BioChip: il futuro dei microprocessori è nel DNA


Nel lontano 1994 uno scienziato Californiano, tale Leonard Adleman, ispirato da un libro sperimentò con successo la risoluzione di problemi complessi tramite l'utilizzo di molecole organiche similmente impiegate come hardware e software.

Si immagini sostanzilalmente il DNA come un software (insieme di istruzioni eseguibili in grado di processare dati) e gli enzimi come hardware (le risorse a cui il software attinge per svolgere le proprie funzioni): il risultato è quello di una unità computazionale (v. Computer) organica. La cosa davvero incredibile, al di là del suggestivo utilizzo di una molecola vecchia come il mondo (forse anche più) sono le prestazioni: 100.000 volte più veloce del più veloce processore arttualmente disponibile, capace cioè di effettuare calcoli 330 trilioni al secondo (tanto per intenderci, un trilione = 10^12 ossia 1.000.000.000.000), con un parallelismo reale impensabile per un procerssore tradizionale. E stiamo parlando di un prototipo di prototipo.

Già ora questo tipo di biomachina è stato ulteriormente perfezionato, rendendo il DNA autonomo (ossia senza bisogno di impèiego di enzimi). I vantaggi sarebbero rivoluzionari: innanzitutto la materia prima, ossia il DNA, si trova ovunque, ce n'è tantissimo, produrlo non costa nulla (le vostre cellule, in questo momento ne stanno producendo a pacchi). Anche le sostanzxe di scarto sarebbero assolòutamente biodegradibili (avete mai visto una discarica di DNA vecchio?). Le potenzialità, praticamente infinite, anche oltre il ristretto campo dell'informatica: una molecola di questo tipo, cioè organica, è naturalemnte affine ai tessuti viventi, rendendola adatta all'utilizzo medico, in particolare nella ricerca contro il cancro.

Che sia il fuoco di prometeo del terzo millennio?

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